Di Miriam Andrea Fadda
L’essere umano è un animale sociale, si sa. In tempi in cui la sua socialità viene messa a dura prova, tanto da essere ridotta ai minimi termini -per non dire quasi vietata- per un bene superiore (la salute pubblica e la protezione delle cosiddette fasce deboli), l’essere umano fa ciò che sa fare meglio: si adatta. Un po’ come ha già fatto tanti secoli prima, quando scoprì che i lati affilati di alcune pietre potevano diventare utili strumenti per semplificare la quotidianità in un ambiente piuttosto ostile.
In questo 2020 che è stato bisestile fin nel suo nucleo più intimo, i nemici non sono più i grandi predatori dei nostri avi, ma un virus con un nome degno di un droide di Guerre Stellari (ve lo ricordate C1-P8, no?). Comunque, si diceva, ci si deve adattare. Ed ecco che internet e le sue applicazioni vengono a trarre in salvo milioni di anime in isolamento a causa della pandemia da SARS-CoV-2 –sì, il Covid. Sbucano come funghi le testimonianze di persone che raccontano come il web ed i social le abbiano aiutate ad evitare di cadere nella spirale della depressione: una video chiamata su WhatsApp qui, un pomeriggio passato su Instagram là, un video postato su TikTok quando la noia sembra prendere il sopravvento e con essa cupi pensieri di solitudine. E, come per magia, i rapporti si smaterializzano e si fanno virtuali. Il calore dei rapporti umani si trasforma in un post su Facebook, insomma, in stringhe di codice asettiche che, agli occhi di chi può azzardar solo un cambio di scenario come passare dalla cucina al salotto, diventano piene di significato.
Sembra tutto bellissimo, non è vero? Eppure non lo è, affatto. Prima o poi da questa situazione di socialità limitata si dovrà uscire –d’altronde siamo sopravvissuti a pandemie come quella delle peste bubbonica e dell’influenza spagnola! Già prima che questo periodo imponesse il distanziamento sociale, le nuove generazioni avevano iniziato a vivere buona parte della loro vita “in digitale”. Sarà capitato a tutti di vedere, in qualche fast-food, all’uscita da scuola (quando ancora ci si poteva andare) o al parco, un nugolo di adolescenti, ognuno concentrato sul proprio cellulare per mandare un centinaio di messaggi al minuto, oppure ragazzi intenti a commentare l’ultimo post sull’ultimo social diventato indispensabile. La pandemia ha portato tutto questo ad un altro livello: dagli aperitivi coi colleghi su Skype al surrogato della serata al pub con gli amici su Zoom, in un surrogato della vita “di prima” che ha iniziato ad interessare non solo più i Millennials, ma tutti e quando dico tutti, intendo proprio tutti –compresa la nonna, oggi immersa in una videochiamata col parente “diggiù”.
Il Covid ha spinto l’intera società in un’era digitale, normalizzando l’assenza di contatti fisici, traslando le interazioni in una dimensione fatta di 0 ed 1, di hashtag e di like e riducendo le conversazioni a commenti di poche righe sotto post spesso privi di spessore.
La domanda rimane solo una: cosa succederà quando, lentamente, si potrà tornare a quella normalità pre-Covid che non imporrà più mascherine, distanziamento e la demonizzazione di un povero passante che ha osato starnutire una volta di troppo? Lo scrittore e filosofo austriaco Ivan Illich offe un interessante spunto di riflessione nel suo La Convivialità: “L’evento catastrofico può essere la fine di una civiltà politica o perfino della specie umana. Ma può essere anche la Grande Crisi, occasione di una scelta senza precedenti. Prevedibile e inattesa, la catastrofe non sarà una crisis nel senso proprio della parola che se, al momento in cui colpisce, i prigionieri del progresso chiedono di evadere dal paradiso industriale e che una porta si apra nella cinta della prigione dorata”. Una prigione dorata in un paradiso digitale, nel nostro caso. Di prigionieri in cerca di evasione, però, non pare esserci un intenso pullulare.
Ciò di cui è necessario rendersi conto, per non rimanere intrappolati nella prigione dorata che la pandemia ci ha costretti ad accettare quale “male minore” la privazione dai rapporti per come li conoscevamo, è che il web con le sue applicazioni rendono sempre più difficile creare relazioni significative e durature, dare alla socialità quella stabilità che caratterizzava la vita dei nostri nonni. La facile accessibilità a nuove conoscenze (quante volte al giorno accettate nuovi amici su Facebook?), senza le difficoltà portate, magari, da un carattere timido ed incerto (che svanisce dietro a quello schermo che diventa una sorta di armatura), manca della complessità e della rilevanza di un rapporto costruito nel tempo, tra percezioni empatiche e comunicazione non verbale. Elementi che nell’era della digitalizzazione della socialità vengono meno.
Secondo Sherry Turkle -sociologa, psicologa e tecnologa statunitense, responsabile dell’Initiative on Technology and Self, un importante centro di ricerca che studia i mutamenti nella costruzione dell’identità o, più in generale, gli effetti sugli esseri umani delle loro relazioni con gli “artefatti”, al MIT di Boston- “Ora siamo consapevoli di avere bisogno di cose che i social media inibiscono”. Una consapevolezza della quale, si spera, ci ricorderemo quando la pandemia non sarà più tale, potremmo tornare a sfoggiare i nostri sorrisi reali e gli abbracci non saranno più banditi.